IL MONDO NUOVO

«Mustafà Mond sorrise. “Ecco, potete chiamarlo, se volete, un esperimento di rimbottigliamento. Cominciò nell’anno 473 del Nostro Ford. I Governatori fecero sgombrare l’isola di Cipro da tutti gli abitanti esistenti e la ricolonizzarono con una spedizione appositamente preparata di ventiduemila Alfa. Tutto l’equipaggiamento agricolo e industriale venne loro affidato ed essi furono lasciati liberi di dirigere i loro affari. Il risultato fu estremamente conforme alle previsioni tecniche. La terra non fu convenientemente lavorata; si ebbero scioperi in tutte le fabbriche; le leggi non erano rispettate, gli ordini venivano trasgrediti; tutti gli individui distaccati per attendere a qualche lavoro d’ordine inferiore, intrigavano di continuo per ottenere incarichi migliori, e tutti quelli di grado superiore controintrigavano per restare a ogni costo dove erano. In meno di sei anni divampò tra loro una guerra civile di prima classe. Quando diciannovemila dei ventiduemila furono tolti di mezzo, i superstiti unanimemente rivolsero una petizione ai Governatori Mondiali perchè riassumessero il controllo dell’isola. Ciò che essi fecero. E questa fu la fine della sola società d’Alfa che il mondo abbia mai visto».

Il Mondo Nuovo, Aldous Huxley, 1932.

“Ti prego facciamo che non sia un trattato sociologico di 80 pagine che poi alla gente s’ammoscia anche la voglia di vivere e legge solo le prime due righe che tanto valeva andare a dormire al posto di buttare tempo a scrivere roba che nessuno si cagherà mai”. Grazie, mio best fun evah, ma ok, ci provo.

1932-2022. Tra pochi giorni saranno passati novant’anni dalla pubblicazione del libro di Huxley.

Nell’epoca degli Iphone, dell’Icloud, dei selfie, di tik tok, delle centinaia di social network che più che social sono vetrine in cui si cerca di prevalere l’uno sull’altro nella lotta alle visualizzazioni. Negli anni dei corsi di laurea per influencer. Corso. Laurea. Influencer. Ma porca puttana. “Non puoi dirlo, ne abbiamo già parlato”. Sì, ok, va bene, ma cazzo. “Neanche quello”.

Dicevo, quasi un secolo dopo, quanto pesano quelle poche righe? In un momento storico in cui non l’essere umano, ma la singola egoistica esistenza è trascinata a pennello in una grandissima bolla d’illusione in cui ognuno di noi crede di essere il centro dell’universo quanto si rivelano profetiche quelle parole?

Partendo dal dover realizzare di non poter essere ognuno il centro dell’universo quante persone sono in grado di realizzare che così non si può andare avanti? Che ormai non siamo poi così distanti dal cannibalismo anche se solo virtuale? Quante riescono a capire che l’imposizione di un lockdown o il forte suggerire di aderire ad una campagna vaccinale nel pieno di una fottuta pandemia, sì lo so, non posso, ma sticazzi, non è un complotto per inserirti un microchip nel cervello che potrebbe anche non essere così micro visto lo spazio vuoto che c’hai da riempire tra le orecchie?

Che poi apro e chiudo una brevissima parentesi: ma chi te s’incula. Che cosa mai avrai di così tanto speciale da dover essere tracciato da tutti i governi mondiali? Defechi oro e urini petrolio? No, perché altrimenti non me lo spiego. Che poi, con tutti i tag che metti su ogni singola colazione o la pizza tonno e cipolle del sabato sera, con la geolocalizzazione del cellulare sempre attiva perché si sa mai che tu ti smarrisca e l’umanità senta l’urgente necessità di venirti a soccorrerti, con tutti i cookies che accetti ogni giorno, quanto pensi che ci voglia a capire dove vivi, che cosa fai dal lunedì al venerdì e nel we? Nulla, ci tieni così tanto tu a tenerci aggiornati. Prova a buttarti al di là delle colonne d’Ercole per cortesia, vediamo se rispunti dal Giappone.

“Niente, ho temuto il pippone sociologico e invece vedi? Con te non si sa mai, hai sbroccato alla terza riga e adesso cominciamo a contare i flames. Comunque una ragione ce l’hai: ho un amico di là, sai come vanno ste cose, ci conosciamo tutti e posso confermarti che c’è un girone dell’inferno per chi fa uso di autoscatti. Perché non sono selfie, sono foto che ti fai da solo, sfigato. Chiamiamo le cose col loro nome. Daje”.

K0

Confessione di un pagano

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Mi perdoni padre perché ho peccato. Padre? Posso chiamarla così nonostante le sia vietato di copulare e dunque di riprodursi nonostante sia un eletto del Signore? Mi scusi.

Mi perdoni padre perché ho peccato.

Proprio non riesco a concepire un Dio in grado allo stesso tempo di arrogarsi l’unicità dell’essere divino e di dichiararsi buono e comprensivo. Il divino per i miei occhi, per il mio cuore, è ovunque e non in un singolo punto lontano chissà in quale angolo di chissà quale cielo. È nella terra e nell’acqua, nell’aria e nel fuoco. E’ in ogni singola emozione che quotidianamente domina il nostro vivere e il nostro morire. E’ nella piuma sulla bilancia così come nelle leonesse e nei serpenti. È nelle nostre rinascite e nei luoghi e nei momenti compresi tra esse.

Mi perdoni Padre perché ho peccato.

Più volte ho nominato il nome del millantato Dio unico, a voler usare un eufemismo, in maniera vana. Mi scusi, ma proprio non riesco a capire il discrimine tra le creature che lo stesso dio ha creato, la differenza tra un agnello e un maiale. Scusi anche il mio sarcasmo, ma mi sembra tutto un ragionare così fanciullesco. Pensi che il mio Paese se ne prende anche cura. Credo che presto sarà disponibile in qualche comma del codice penale anche la lista degli animali concessi e di quelli sacrileghi. Per fortuna siamo stati creati a sua immagine e somiglianza. Così ogni giorno possiamo continuare ad uccidere in suo nome senza nominarlo, senza riprodurne l’immagine, senza poter scrivere il suo nome.

Mi perdoni padre perché ho peccato.

Durante il Santo Natale ho dovuto recarmi a lavoro, così come il giorno del vostro primo santo. Non parliamo poi delle domeniche. Ma come posso onorare io questo precetto se ogni domenica dell’anno persino il Papa stesso macchia la sua coscienza con il peccato di lavoro festivo? Lodiamo nostro signore di non essere ebrei e di poter dunque disonorare il sabato lavorando. È buffo come i diversi dei unici riposino in giorni diversi, non trova? Sarà questione di fuso orario?

Mi perdoni padre perché ho peccato.

Non ho onorato a sufficienza mio padre, quello vero, per tutte le cose buone che ha fatto per me e per la mia famiglia. Lo stesso faccio con mia madre, santa donna seppur non vergine. A mia discolpa posso dire che non ho rimesso loro le loro stesse colpe, ma ho cercato di accettarli e amarli per come sono.

Mi perdoni padre perché ho peccato.

Ho ucciso ogni giorno, per molti anni, la mia essenza dopo averla ridotta in catene e aver tentato di piegarla più e più volte. Si è ostinata a rinascere ogni volta come fosse un nuovo sole. Pensavo fosse una condanna ed invece è stato un miracolo. Ho spezzato le catene degli insegnamenti assoluti e categorici, catechisti direi, ed ora sono libero.

Mi perdoni padre perché ho peccato.

La natura è stata generosa con me. Scusi il mio sorriso, ma proprio non posso trattenerlo. Così come è difficile trattenere altro, soprattutto in primavera, in presenza di certe creature a dir poco angeliche.

Mi perdoni padre perché ho peccato.

Ho rubato molto nella mia vita. Sorrisi e lacrime ad esempio. Di sicuro la cancelleria, ma sfido chiunque a scagliare la famosa prima pietra. Il cibo dai piatti dei miei commensali, davanti a certe pietanze è proprio impossibile trattenersi. Indipendentemente dalla stagione in questo caso. È il quarto cerchio, vero? Probabilmente già mi attendono. Nel caso chiederò indicazioni, anche se sbircerei volentieri qua e là. Sa, Dante, mi ha fatto incuriosire parecchio.

Mi perdoni padre perché ho peccato.

Ho mentito, non tanto spesso, ma l’ho fatto. A fin di bene per lo più. La diplomazia è un’arte che padroneggio abbastanza bene e amo il quieto vivere. A mio svantaggio ho confermato accuse per non ferire o almeno per non farlo ulteriormente. Ma immagino conti poco agli occhi dell’Assoluto.

Mi perdoni padre perché ho peccato.

Ho la pessima abitudine di prendermi ciò che desidero. Proprio non riesco a farne a meno. È la mia testa, sa, mi fisso. Proprio non viene da pensare ad altro. Per fortuna le catene che tengono le schiave legate al proprio padrone si sono ridotte ad avere un solo anello d’oro. È molto più facile rubarle adesso. Le dirò, erano molto propense all’assecondare questo loro rapimento e si sono dette molto soddisfatte. Scusi il sarcasmo padre, ma capirà che nel 2020 questo precetto è quanto meno da rivedere.

Bè padre, mi perdoni, ma nel mio peccare sono stato coerente. Cerco sempre di esserlo. Ho sicuramente desiderato tutto ciò che ho rubato, oggetto o persona che sia. Mi sembra una condizione necessaria e sufficiente.

Ora che abbiamo terminato con me sa dirmi quando la sua chiesa si scuserà con me e con i miei dei per gli omicidi di massa commessi dai vostri crociati, dal tribunale della Santa Inquisizione e nell’arco delle ripetute operazioni di recruitment del vostro fan club a discapito della vita dei miei fratelli e sorelle? Mi dispiace anche per i vostri figli, di certo non suoi, nelle grinfie dei vostri sacerdoti, dei suoi colleghi insomma, ma questo non è affar mio. E poi non ho mai sentito di un girone per i pedofili, quindi al vostro ineccepibile Dio deve andar bene così.

Vorrei poterla perdonare, padre, per i suoi peccati.

K0

Maschi Vs Femmine

Twitter

Twitter è un posto magico. Un social di parole, seppur con un limite di caratteri, in cui ognuno può liberamente dire la sua. Senza metterci la faccia, né il nome. Un social di parole che nonostante tutto è pieno di tette e culi come, se non in misura maggiore, i peggiori account di Instagram. Almeno lì si vedono anche le facce. Così, qualche giorno fa, stavo scorrendo la mia home alla ricerca di un po’ di intrattenimento per uno dei pochi momenti di noia di questo periodo. Tra un paio di tette senza volto, ma attenzione: con aforismi ricchi di principi, calici sorretti tra le dita di piedi smaltati e tweet a sfondo politico mi appare questo post:

Continuo a scorrere, evidentemente immerso in altri pensieri, quando ad un tratto una vocina dentro di me: “Aspetta, ma che cazzo ho appena letto?!”. Scorro indietro alla ricerca del post, lo rileggo un paio di volte per accertarmi di aver compreso il contenuto (Italia sempre peggio per valori di analfabetismo funzionale e comprensione del testo, ma questa è un’altra storia) e inorridisco. Inorridisco non è il termine corretto perché in realtà la sensazione che provavo era più simile una soluzione di incredulità e disprezzo. “Ma siamo davvero ancora a questi livelli?”, commento tra me e me. Metto via il telefono e scendo dal tram.

Il post seppur, mi auguro, probabilmente a scopo polemico, riesce a tirare fuori il peggio nei suoi commenti. Persone senza volto esprimono il loro parere e non sempre questo pare essere datato dopo gli anni 2000 d.C. Questo fa riflettere, perché se è vero che siamo (quasi) tutti in grado di dire che questa ‘Norma sociale’ ormai è quasi del tutto superata quando siamo nel pieno delle nostre facoltà, diverso è il discorso quando siamo costretti a tornare al pensiero primitivo. Da quanto non avete un primo appuntamento? Vi ricordate, cari maschietti, l’ansia della questione? “Dovrò offrirle la cena? Devo pagare io? Le farà piacere? Se lo aspetta? O è una di quelle a cui queste cose danno fastidio? Una di quelle, come si chiamano? Ah sì, femministe. Che faccio?”. E invece voi femminucce? “Devo offrirmi di pagare? Tutto o metà? Magari lui non vuole, magari è una persona ancora attenta a queste cose. Dovrò fingere di andare in bagno e lasciare a lui la scelta?”. Che bella l’ansia del primo appuntamento, con tutto ciò che comporta.

Il concetto del “Il maschio paga” è legato ad una società ormai superata. Più che ad una società ad un’economia. Fino a qualche decennio fa le famiglie riuscivano a mantenersi con un solo stipendio di conseguenza era insensato che entrambi i genitori lavorassero. Era meglio concentrare le energie del “Genitore 2” alla cura della prole e della tana. Con il mutamento di questa condizione economica si è reso necessario che entrambi i genitori iniziassero a lavorare e a contribuire ai compiti familiari e domiciliari. Tempo e denaro sono da sempre risorse limitate e quindi da gestire con cautela. In questo contesto economico la donna ha dovuto e voluto farsi carico di un dovere una volta relegato all’uomo, il lavoro, e ha chiesto e preteso che l’uomo cominciasse ad occuparsi dei compiti una volta unicamente a lei affidati. In questa nuova società di persone in cui tutti svolgono gli stessi compiti la donna, giustamente, ha iniziato a pretendere di essere trattata alla pari dell’uomo.

Il problema è che come sempre si predica bene e si razzola male, come si suol dire. La vocina si fa largo tra i miei pensieri mentre scrivo: “Vedi di ponderare bene le parole perché qui si rischia il linciaggio, ho ancora molti moralismi da farti quindi dobbiamo sopravvivere a questo post”. Dicevo, molte volte ho assistito ad atteggiamenti di donne che mentre da un lato manifestassero, più o meno apertamente, questo desiderio di parità nei confronti dei pene-dotati, su molti atteggiamenti quotidiani invece pretendevano di essere ancora messe su un ipotetico piedistallo. Vedi la questione in oggetto. D’altra parte, per par condicio, ho anche visto donne meravigliose che invece si prendono ogni giorno, con ogni gesto, con ogni abitudine, la normale parità di cui sentono di avere pienamente diritto.

Può sembrare una cavolata, ma psicologicamente la questione è invece molto importante. La vita si decide spesso nei momenti di ansia ed insicurezza. Se nelle più piccole, ma quotidiane abitudini di ogni giorno, come può essere appunto un primo appuntamento vi fate trattare da ‘Femmine’ o ancora peggio lo pretendete, perché pensate che vi sia dovuto, come potete chiedere ad un essere semplice come un ‘Maschio’ di non etichettarvi come ‘Femmine’ e come tale cominciare a trattarvi? La parità, come ogni cosa, inizia nei piccoli gesti. Se pretendete di essere messe nelle condizioni di una ‘Femmina’ nella vita di tutti i giorni, non stupitevi se poi, dopo qualche anno, vi lasciano a casa con i bambini a fare le pulizie. La parità inizia nella donna, nel vedersi pari e nel pretendere di essere trattata come tale. Nel chiedere di uscire se qualcuno vi piace, nel dividere i conti o nell’offrire vicendevolmente, nell’aprirvi le porte, nel portarvi i bagagli (così imparate anche a metterci dentro anche meno roba, sembra di spostare sacche con cadaveri delle volte), nel pretendere il rispetto che meritate ogni giorno.

Pro tip (scusate lo slang giovanile): se dividete potete uscire il doppio!

Vi lascio, ho un’altra Santa Inquisizione da fermare, un altro medioevo da illuminare.

P.s. Uomini, tra due giorni sarà il 6 Gennaio, risparmiate alle vostre signore le battute sulla befana per cortesia. Tenetele per la suocera.

K0

Il dilemma della pecora intelligente

Immagine di @Bianca_e_i_suoi_colori

È rosso. Quella stramaledetta luce ci inchioda al marciapiede. D’un tratto il cervello, accortosi dell’assenza di movimento, riemerge dai pensieri nel quale si era placidamente immerso cullato dall’andatura regolare dell’abitudinario percorso verso l’ufficio. Scocciato: “Bè che succede? Perché non ci stiamo muovendo?”. ‘È rosso’. Una rapida occhiata a sinistra, una a destra (non si sa mai). “Ma non c’è nessuno! Andiamo!”. ‘È rosso’. “Per carità saranno sì e no tre metri!”. ‘È rosso’. Altri si affiancano, anch’essi paralizzati dalla calda luce. Uno scambio di sguardi, quasi a chiedere il da farsi, ma nulla. Tutto tace in un condiviso e consensuale immobilismo. Lunghi attimi. All’improvviso un folle, ma coraggioso individuo si fa avanti tra la folla e dopo qualche istante di esitazione, spinto da chissà quale nobile proposito o missione, attraversa. L’ammirazione per colui che ha infranto le regole sociali (e stradali) che ci soggiogavano ci pervade e prende il sopravvento: tutti decidiamo di seguirlo in questa sua crociata verso la libertà. Impavidi percorriamo la distanza maledetta da quella luce infernale. Con un brivido che ci corre lungo la schiena raggiungiamo l’altra sponda. In quel preciso istante scatta il verde. Ovviamente.

Ero in aeroporto con la mia compagna, stavamo mestamente aspettando l’arrivo del nostro aereo per poter rientrare a Milano dalle ferie. Lei, più giovane e tecnologica, brandendo il suo preziosissimo smartphone mi avvisa che l’applicazione della compagnia segnala un ritardo di quasi un’ora. Mi scorgo verso il monitor sopra il nostro gate, ma nulla. Malfidente cerco di capire dal mio telefono quale magia abbia compiuto per prevedere il ritardo, ma evidentemente non sono più poi così tanto giovane, né al passo coi tempi. Le chiedo di farmi vedere il suo schermo magico, giusto per essere sicuro che, non so, magari abbiamo dimenticato come si legge o l’ordine dei numeri, non si sa mai. E’ sempre meglio controllare con i propri occhi, mi dico. Effettivamente quanto da lei millantato coincideva al vero, nessuna svista. Mi ero preventivamente detto che la tecnologia non sbaglia e che quindi avrei dovuto credere a qualunque cosa avessi letto. Finiamo di prendere il nostro caffè seduti al tavolino del bar adiacente all’ingresso dell’imbarco, ma visto il previsto ritardo, non ci alziamo. A quanto pare però gli altri passeggeri, o almeno la gran parte di loro, non erano assidui utilizzatori di app di compagnie aeree, né accompagnati da una giovine maga esperta in tecnologia, decidono di mettersi in coda. È a questo punto che vengo assalito dal dilemma della pecora intelligente. Ve lo illustro: le pecore sono rinomate per il loro muoversi in gregge, non sono gli unici animali a muoversi in gruppo, ma non si sa bene per quale motivo, se si pensa ad un animale i cui esemplari tendono a muoversi in massa si pensa subito ad un gregge di pecore. Viceversa se si pensa ad un animale intelligente di sicuro non si va a pescare come prima scelta l’ovino. Per questo motivo una pecora intelligente dovrebbe spiccare tra le altre, differenziandosi per quanto possibile. Il mio informatore di fiducia mi aveva comunicato di aver visto nella sua sfera di cristallo piena di microchip che il mio aeromobile sarebbe giunto molto in ritardo. Il mio cervello aveva elaborato l’informazione con su semplice “Va bè sticazzi, stiamocene seduti a mangiare mentre io mi faccio i fatti miei”. Eppure, nonostante tutto conducesse alla logica scelta di non bruciare mezza caloria in più del necessario per stare anche solo un secondo più del dovuto in piedi, lui era lì. Piano piano si faceva largo in me, sempre più forte, sempre più invadente, ormai aveva raggiunto persino le gambe che quasi fremevano dalla voglia di lavorare (per la prima volta nella loro vita). Lui era lì e gridava ‘Andiamo! Andiamo! Andiamo! Vanno tutti! Andiamo!’. L’istinto del gregge. L’implacabile ed instancabile istinto del gregge. Cominciò quindi una lotta epica tra il mio cervello, forte dell’alleanza con la mia pigrizia, che mi voleva saldamente spalmato sulla sedia del bar, e quella vocina dentro di me che ora gridava a più non posso. Ad ogni persona che si aggiungeva alla coda il mio cervello subiva un duro colpo, mentre il mio istinto rinasceva pieno di rinnovata energia. Inutile dire che la lotta fu breve. Presto cedetti e mi misi in coda trascinando con me la mia veggente tecnologica e il suo dissenso.

Una volta in coda la razionalità tornò a recuperare energie. Ad ogni minuto speso in coda corrispondeva un “Te lo avevo detto” da parte del mio cervello. Ma fu tutto vano. Il mio istinto aveva raggiunto la pace dei sensi e nulla riusciva più a tangerlo. Rimanemmo in coda e aspettammo. Non potendo brucare, ci limitavamo a belare.

Gli esseri umani sono così. Possiamo farci poco, quando siamo circondati da nostri simili tendiamo ad avvicinarci più agli ovini che alle scimmie. Perché lo so che tu ora sei lì a credermi un deficiente, ma fermati un attimo e dimmi: non ti è mai capitato di trovare un casello vuoto e uno con delle macchine in coda e quindi di accodarti in quello pieno anziché in quello vuoto non si sa bene per quale motivo? Non ti è mai capitato, mentre guidi distrattamente di ritrovarti dietro ad una macchina parcheggiata in seconda fila in attesa che svoltasse? O in una fitta nebbia di seguire le luci della macchina di fronte a te pur non sapendo se la tua e la sua meta coincidessero? O semplicemente di fare una scelta piuttosto che un’altra solo perché “Così fan tutti”?

Se così fosse prendi pure posto qui vicino a me. In caso contrario candidati come pastore.

Bèèèèè.

P.S. l’immagine in testa è stata realizzata appositamente per questo post da Bianca che ringrazio. Appena avete qualche minuto tra una brucata e una belata prendete la vostra sfera di pixels da mille euro e visitate il suo profilo:

K0

Reddito di Cittadinanza – un futuro strappato troppo presto.

dal web.

Negli ultimi giorni ha fatto notizia l’affermazione di Salvini secondo la quale l’istituto del reddito di cittadinanza debba essere posto ad una accurata verifica in quanto oggetto di sotterfugi e frodi da parte degli italiani.

Sembra quasi sia colpa del reddito di cittadinanza se gli italiani sono stronzi.

Ad ogni modo, non sono qui per criticare l’indole un po’ birichina dell’italiano medio, bensì per spezzare una lancia a favore della “Nuova” istituzione in auge da qualche mese. Partiamo dalle basi.

https://www.ilmessaggero.it/t/reddito-di-cittadinanza/

Che cos’è il reddito di cittadinanza?

Come avete avuto modo di capire dalle varie trasmissioni televisive, dagli articoli di giornale, dai post sui social network e dalle chiacchere condominiali il reddito di cittadinanza, per come lo intendiamo al momento noi italiani, non è altro che un sussidio ed un’integrazione alle famiglie il cui reddito non supera la soglia di povertà indicata dall’Istat. Soglia identificata con la cifra di 780€. Questa stessa cifra va poi ad indicare anche il limite massimo di godimento mensile di questo sussidio. In soldoni: se guadagnate meno di 780€ al mese potete richiedere l’integrazione allo Stato. Se anche guadagnate 0€ non potete richiedere più di quella somma.

Quali sono i requisiti minimi?

I requisiti sono davvero minimi: basta aver raggiungo la maggiore età, essere italiani e non avere entrate mensili pari o superiori a 780€.

Così strutturato in realtà risulta essere nient’altro che un sussidio di disoccupazione mascherato sotto nuovi paroloni o comunque qualcosa che gli si avvicina molto. Va riconosciuto al movimento 5 stelle di aver introdotto o quanto meno aver reso popolare il concetto base del reddito di cittadinanza: io sono cittadino italiano, pertanto lo stato deve prendersi cura di me e sostentarmi. Punto di vista diametralmente opposto a quello costituzionale, ma ci arriviamo tra poco.

Il reddito di cittadinanza è il futuro. A dirlo non sono io, bensì il famoso imprenditore e filantropo Elon Musk (quello che probabilmente ci porterà tutti su Marte per intenderci, non il cazzaro del parchetto sotto casa). Lo stesso, nel corso del Summit dei Governi Mondiali di Dubai, ha avuto modo di spiegare come in un’ottica di continua crescita dell’automazione del mondo del lavoro sia normale che si vadano a perdere posti di lavoro. Le macchine oltre a sostituire l’uomo nelle sue mansioni, riescono anche ad avere una migliore resa, rendendo l’essere umano di fatto obsoleto per molte attività. Questo fa sì che i robot lavorino al nostro posto e che la produzione non solo venga svincolata dall’uomo rendendolo libero di godere di un maggiore tempo libero, ma addirittura questa venga incrementata generando più guadagno. In questa nuova ottica, in assenza o scarsità di posti di lavoro, le nazioni devono prendersi carico dei loro cittadini garantendo un reddito di cittadinanza che permetta loro di sostentarsi. Il reddito di cui parla Musk è una cifra in denaro che viene distribuita ad ogni cittadino per il semplice fatto di essere un essere umano. Non c’è soglia minima, non ci sono altre variabili. In un mondo in cui il lavoro umano non esiste più o comunque è notevolmente ridotto, lo Stato si fa carico dei suoi cittadini e ne garantisce il sostentamento.

 A maggiore completezza vi riporto, prima di procedere con il nostro discorso, il link dell’articolo:

http://www.efdd-m5seuropa.com/2017/02/elon-musk-lautomazio.html

Elon Musk è un imprenditore che parla ad un Summit dei Governi Mondiali. Prendiamo le parole del magnate sudafricano per quello che sono: oggettivazioni. Per quanto possa essere vero che l’utilizzo di macchine nel mondo del lavoro non possa che aumentare la produttività bisogna tenere ben a mente che di fatto questi robot apparterranno ad una persona e che sarà quest’ultima a godere delle varie ottimizzazioni. Gli altri godranno semplicemente del ritrovato tempo libero e della loro totale povertà in assenza di un modo di potersi mantenere senza di posti di lavoro, a meno che, come ci si augura, l’istituto del reddito di cittadinanza non divenga una realtà consolidata e concreta.

È sempre bello parlare del futuro, tra scenari di fantascienza e grandi speranze, guardare avanti ci dà nuove energie da investire sul nostro domani. Ma in Italia come siamo messi?

Bè nel caldo Agosto del 2019 in Italia si sentono ancora gli odori e la frescura del Dicembre del 1947. Il giorno di San Giovanni di 72 anni fa (ormai manca poco alla ricorrenza) veniva promulgata la Costituzione Italiana il cui articolo 1 recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”. Continua poi all’articolo 4: “La repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società”. Avete fatto il bucato? Avete portato fuori il cane? Avete detto la preghierina prima di mangiare? Perché se continuiamo di questo passo a breve gli unici “Doveri, attività e funzioni” con cui potrete “Concorrere al progresso materiale e spirituale della società” saranno solo questi.

Ma sono passati ben 72 anni, è quasi una vita intera (nel nostro Paese l’aspettativa di vita è di 82 anni) chissà quante cose saranno già cambiate, chissà quanti passi avanti abbiamo già fatto!

Tanti quanti il numero di dita che avete attorno all’ombelico (non ditemi che avete controllato). Zero, nessuno, niente, nulla. Chiediamo ancora che ci venga dato un lavoro, ce ne inventiamo ogni giorno di nuovi, cerchiamo in ogni modo di capire come possiamo arrivare alla fine del mese in maniere ogni giorno più originali (o molto vecchie e tradizionali, ma illegali – ammicca, ammicca). Quando finalmente si accenna al futuro nel corso di una campagna elettorale finiamo col ridurre, col travisare, con l’approfittarci di questo nuovo germoglio e vanifichiamo per pigrizia e scarsa integrità morale tutte le nostre visioni futuristiche, le nostre grandi speranze per poi ricadere sempre nei soliti discorsi di circostanza. Non chiediamo ai nostri politici che lo Stato cominci a guardare avanti e cominci ad investire anziché tagliare e spostare fondi. Non pretendiamo che il mondo del lavoro venga reso Res Publica e che sia lo Stato ad occuparsene, magari intraprendendo attività produttive e di servizi anziché cederle, che crei guadagno anziché tassare il nostro, vecchio, quasi obsoleto istituto del salario. La stessa parola ci fa capire quanto vetusto ed arcaico sia questo concetto. Abbiamo fatto ben pochi passi avanti da quando il nostro lavoro veniva ricompensato con una piccola razione di sale.

Stiamo calpestando e strappando le radici di un istituto che se innaffiato e curato avrà modo di darci molti frutti.

Vi lascio con un ultimo articolo, un piccolo spunto di riflessione e magari l’inizio di un piccolo esame di coscienza.

https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2019/01/14/italia-repubblica-lavoro/?refresh_ce=1

K0

Lavorare nei rossi: il lavoro domenicale

sindacati-schiavi-diseguaglianze

“E il settimo giorno Dio si riposò da tutte le opere che aveva portato a termine”. Persino Dio la domenica, per definizione il suo giorno, il giorno del Signore, non lavora. Anzi, si gode le meritate preghiere e adorazioni. Tornano ciclicamente in auge le discussioni sul lavoro domenicale e festivo in genere, se sia giusto, quanto andrebbe retribuito, se e come andrebbe limitato, se porti o meno benefici all’economia e in caso affermativo a discapito di cosa.

Partiamo dalla ratio che sta alla base dell’ufficializzazione di tutto, la ragione per cui ad un certo punto si è voluto investire a livello governativo su questa tematica: l’economia. Per meglio dire: i soldi. Come sempre. Il pensiero che sta alla base della liberalizzazione delle aperture dei negozi è il seguente: se i negozi sono chiusi la gente sta a casa, se la gente sta a casa non spende soldi. Sia mai che riesca a mettere da parte due lire o centesimi che dir si voglia. “Apriamo tutti i negozi sempre!”. Questo vuol dire liberalizzare le giornate di apertura, permettere a chi possiede (attenzione: possiede, non lavora) un negozio di rimanere aperto un giorno in più a settimana. Ovviamente si è lasciata la discrezionalità ai proprietari, non lo si è imposto a livello normativo, a mio avviso una scelta di comodo, una mancata assunzione della responsabilità. Perché dare la possibilità ad un proprietario di aprire un giorno in più significa ottenere un risultato certo senza neanche l’imposizione. E’ un po’ come se foste a dieta e qualcuno vi piazzasse davanti la vostra pizza preferita, non obbligandovi a mangiarla, ma neanche vietandovi di farlo. A questo punto la discussione si scinde in due parti, lungi da me riaprire una battaglia sindacale, che gli Dei mi fulmino, ma subito si è riaperta la partita proprietari vs lavoratori.

Da un lato i proprietari delle attività, dopo aver fatto i propri conti sui costi e i guadagni del rimanere aperti un giorno in più hanno deciso se aprire o meno i propri negozi. Dall’altra parte i lavoratori che si sono ritrovati ad essere messi in turno la domenica e i giorni festivi.

“Si, ma io ti pago di più!”. Vero, chi lavora la domenica ed i giorni rossi del calendario viene retribuito un po’ di più, rispetto a chi non lo fa, ovviamente parliamo solo delle ore effettivamente lavorate nel giorno di festa, non si ottiene la medaglia Pokemon di super lavoratore e quindi la retribuzione maggiorata a fine mese. Non è uno status quo, se lavori nei rossi bene, altrimenti ti attacchi. Ah, dimenticavo, la scelta non è tua.

“Abbiamo creato posti di lavoro!”. Vero, si è aperta qualche posizione, dovendo coprire un orario di apertura maggiore si è reso necessario assumere qualche dipendente in più. Non parlerò qui della situazione contrattuale in Italia, altrimenti non ce la caviamo più. E’ anche vero che si sono andate a scaricare le ore lavorative settimanali visto che essendo data la possibilità alle persone di andare in negozio sette giorni su sette di sicuro qualcuno si è spostato dalle giornate infrasettimanali a quelle festive. Se devo comprare un frullatore vado in negozio una volta sola, non è che ci vado due volte perché la domenica sono aperti.

“Ma noi non vediamo più le nostre famiglie!”. Vero anche questo. La domenica è per tradizione il giorno della famiglia (per chi ne ha una). I bambini sono a casa da scuola e i genitori dal lavoro. Finalmente possiamo stare tutti insieme una volta tanto. Per poi ringraziare il cielo di poter tornare a lavoro lunedì e non dover sentire le scimmie urlatrici e tiratrici di escrementi che abbiamo con fatica e sofferenza partorito e cominciato a crescere.

La verità secondo Kappa. Lavoro da molti, troppi, anni nel terziario e quindi so bene cosa voglia dire lavorare (quasi) ogni domenica, Natale, Capodanno, 25 Aprile, 1° Maggio, 2 Giugno, 15 Agosto etc. E’ assolutamente vero che i turni festivi vengono retribuiti di più, ma posso garantirvi che non è così tanto di più e di sicuro nel lungo periodo il guadagno è ben poca cosa e non fa la differenza, anche perché in fin dei conti le retribuzioni mensili sono sempre quelle. Con l’invecchiare comincia a pesarmi non poter essere a casa, al parco, in giro per il mondo quando tutti gli altri sono liberi soprattutto quando “Gli altri” sono la tua compagna, i tuoi amici e i tuoi parenti. Altra triste verità: nonostante si lavori nei giorni festivi non si hanno a disposizione più giorni di ferie. Ergo, mentre chi ha un lavoro “Tradizionale” ha diritto a 28 giorni (almeno) di ferie non contando i giorni rossi del calendario in cui la sede di lavoro è chiusa e quindi si è di fatto ed obbligatoriamente in ferie, chi si ritrova a lavorare la domenica ha diritto allo stesso numero di giorni di vacanza. Ci sono dei lati positivi ovviamente: hai sempre una scusa per poter balzare gli inviti a cene scomode (anche se di fatto non sei in turno, tanto i tuoi amici e parenti sono a cena, nessuno verrà a controllarti), se hai bisogno di andare in banca, in comune e simili e non lavori in settimana non sei costretto a prenderti qualche ora di permesso per andarci, ma sinceramente non ne vedo altri. Credo sia vero, ma solo in parte, che si siano creati posti di lavoro perché come ho detto prima in alcuni casi le ore lavorative sono state semplicemente spalmate su sette giorni anziché su sei. Lo stesso vale per la questione economica: in alcuni casi ne è valsa la pena, soprattutto per il terziario che offre un intrattenimento grazie al quale chi non lavora può godersi il tempo libero. Non sono del tutto convinto per i negozi di abbigliamento, elettronica e supermercati in genere. Se devo comprare una scarpa, un frullatore e una banana che io ci vada di lunedì o di domenica non penso mi faccia comprare e quindi spendere di più. Un punto invece, è a mio avviso indiscutibilmente a favore dell’apertura domenicale: il turismo. E’ davvero brutto, vi parlo per esperienza personale, arrivare in una città e trovare i negozi chiusi (soprattutto quando dimentichi ogni volta di mettere qualcosa in valigia), ma questo vale anche e soprattutto per i musei e simili, in questo caso è davvero nocivo sia per l’immagine che per l’economia del Paese trovare le serrande abbassate. Nonostante ciò, molti musei, anche quelli delle città più importanti, hanno ancora dei giorni di chiusura al pubblico. Ad ogni modo le statistiche (che poi è quello che importa agli economisti), almeno quelle di cui ho letto io, sono a favore dell’apertura dei negozi, economicamente funziona. We did it.

Ora io vi chiedo: siamo sicuri che puntare ai soldi, allo spendere di più per far muovere l’economia sia meglio che invece investire nel risparmio per un avvenire e soprattutto allo stare con i propri cari che oggi ci sono e domani non sappiamo?

#priorità

K0

Notre Dame de Paris

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Il 15 aprile 2019, durante un restauro, la famosa cattedrale parigina è vittima di un incendio che persisterà diverse ore fino a danneggiare la struttura della stessa chiesa. Grande idea Kappa, gran bella idea: un post su una delle più famose cattedrali del mondo giusto nel giorno della Pasqua. Ti piace stuzzicare il tribunale dell’inquisizione, eh? Per fortuna il medioevo è finito. Anche se a volte ne dubito. Ma torniamo a noi. Mi sono preso qualche giorno per documentarmi un po’ su questa struttura che purtroppo non ho fatto in tempo a visitare nella sua interezza (mi piace il gotico – no, non sono un emo). Come sempre ho trovato la pagina di Wikipedia ben fatta, la linko qui di seguito per i nostri pigri lettori (di cui io faccio parte): https://it.wikipedia.org/wiki/Cattedrale_di_Notre-Dame. Per i più pigri di sempre invece faccio un breve riassunto della storia dell’edificio, ma davvero, spendete qualche minuto per leggere l’intera pagina. Originariamente nel luogo in cui sorgeva Notre Dame vi era un tempio pagano, dedicato a Giove, a cui la Chiesa Cristiana ha ben pensato di sovrascrivere un paio di chiese, quella di Santo Stefano e quella di Nostra Signora. Non è né il primo né l’unico caso, ma anzi per un pezzo è stata abitudine di questo meraviglioso movimento religioso piazzare i propri luoghi di culto esattamente sopra quelli preesistenti di fatto cancellandoli dalla faccia della Terra irreparabilmente – ma la gente si strappa i capelli se un incendio danneggia anche solo una parte di un edificio pressoché “Moderno” in confronto a ciò che esisteva in precedenza. Dico “Moderno” perché la prima pietra della chiesa viene posata solo nel 1163 (dopo aver demolito le due chiese costruite in precedenza – a proposito di abitudini). La decisione viene presa per far fronte all’aumento della vendita degli abbonamenti della fede Cristiana, dunque diviene necessario costruire uno stadio più grande. Nel medioevo Cristo andava forte. In Europa era pressoché l’unica squadra o, per lo meno, la più forte. Scudetto e Champions garantite ogni anno nonostante il cambio degli allenatori. Bei tempi. Le prime modifiche strutturali vengono apportate già nel 1250. Neanche 90 dopo l’inizio dei lavori. Neanche la Salerno-Reggio Calabria. La cattedrale gode quindi di qualche anno di serenità fino a quando, dal Rinascimento in avanti, vengono apportate piccole modifiche per adeguarla al gusto estetico delle varie epoche fino ad arrivare alla Rivoluzione Francese. Durante questi anni bui (siamo alla fine del 1700) la chiesa viene saccheggiata e lasciata cadere in degrado. Fortunatamente con l’avvento del 1800 la struttura viene sottoposta a vari restauri che la riporteranno in auge e la condurranno fino a metà del 1900 quando verranno apportate e rimosse una serie di piccole modifiche, più o meno artistiche. Gli ultimi lavori che vanno a modificarne l’ossatura risalgono al 2004. Come detto in testa al post, il 15 aprile un incendio durato diverse ore ne intacca la struttura facendola in parte crollare. Nota molto interessante è la proprietà dell’edificio, questo infatti appartiene alla Francia e non alla Chiesa Cattolica a cui il governo francese ne ha solo assegnato l’utilizzo. Le operazioni di restauro spetteranno dunque allo stesso governo che ovviamente ha preso la palla al balzo per promettere che il tutto avverrà nel minore tempo possibile, giusto qualche anno. “Ricostruiremo!”. Speriamo che in Francia ci mettano meno che in Italia. Il mio sincero augurio è che la cattedrale che ha già visto nel corso della sua storia una serie di modifiche e restauri si rialzi più bella di prima e che per essa il fuoco non risulti essere niente altro che una fonte di rinascita ed evoluzione.

Ovviamente non è mancata la parte social che è andata ad accompagnare l’avvenimento. Prima di lasciare gocciolare il mio veleno vorrei spendere qualche minuto per condividere un pensiero. È comprensibile l’attaccamento all’edificio, sia come luogo di culto, sia come struttura storica. È comprensibile l’orgoglio di una nazione che si sente ferita quando parte della sua storia viene letteralmente bruciata ed è comprensibile anche la solidarietà che il resto del mondo si ritrova ad esprimere più o meno adeguatamente. Tutto questo però non è forse un eccessivo attaccamento al passato? Mi spiego, se Notre Dame (in questo caso, ma lo stesso discorso vale per ogni edificio storico) fosse stata rasa completamente al suolo e al suo posto, invece di ricostruire una cattedrale più o meno simile o una completamente diversa, venisse costruito un edificio di pubblica utilità, come un ospedale o un asilo o un centro di ricerca per malattie rare, non avremmo comunque fatto del nostro dolore, della nostra ferita, un punto di forza? Ricostruire un edificio non è una sorta di imbalsamazione di qualcosa che purtroppo ormai ci ha già lasciati? La chiesa non sarà più la stessa, lo stesso vale per le torri gemelle e lo stesso tempio di Giove sepolto ormai sotto le macerie. Non è forse un volersi illudere di un passato che non finirà mai il voler ricostruire qualcosa che è andato distrutto? Il passato in quanto tale è giusto che risieda nella nostra memoria, forse in questi casi sarebbe meglio prenderne atto ed andare avanti. Guardare al presente e alle sue esigenze e quindi al futuro piuttosto che al passato, per quanto romanticamente possa riposare nella nostra mente e nel nostro cuore. A volte ci fossilizziamo.

A proposito di presente. Come sempre i social hanno mostrato la duplice natura umana: la speranza che qualcosa di buono ci sia, come i sinceri dispiaceri di molte persone e le donazioni che molti enti hanno deciso di disporre a favore della ricostruzione, ma anche il solito trash del becero partecipante del social di turno. Ragazzi, cari ragazzi, non vi farà scopare di più un post su facebook in cui piangete con un’emoji la disgrazia di turno e neanche un photoshop  di una vostra foto con lo sfondo di Notre Dame in fiamme. Ho invece un suggerimento per tutti quelli che hanno detto che avrebbero preferito bruciare loro stessi piuttosto che la famosa chiesa parigina: fatevi prestare un accendino da un amico se non fumate e liberateci, non dal male, ma da voi.

Buona resurrezione.

K0

Piccole e dolci premesse dumb-proof.

Non voglio essere gentile. Voglio solo essere sincero. Vi prego, smettiamola subito con le solite frasi fatte del tipo “Si può essere sinceri anche senza essere sgarbati”, anzi evitiamole proprio sul nascere (come forse era meglio fare con molte persone, ma pazienza ormai è tardi – forse). No, non si può. Perché se uno è stronzo non puoi dirgli che è diversamente dolce o garbato in una maniera particolare. Per lo stesso motivo alle gare di moto gp tutti si presentano con una moto da corsa e non con una carriola trainata da una capra zoppa. Le parole sono un mezzo e come tali vanno utilizzate nel frangente opportuno, senza riserve. Non si può pensare di mettere un filtro ad ogni espressione solo perché poco consona alla società (falsa e meretrice – vuol dire puttana – permettemi) in cui viviamo. E che filtro poi: un finto buonismo che a volte è così sdolcinato non da provocare la nausea, ma direttamente il diabete di tipo 2 senza passare dal via. Peggio della prigione del Monopoli. Almeno da lì ci uscivi dopo qualche turno.

Viviamo in una società, quella occidentale, in cui è concessa la libertà di parola a qualsiasi imbecille, più o meno di turno. Bene, voglio correre il rischio di passare per uno di quelli. Tanto essere portatori sani di cervello sembra essere quasi una malattia di questi tempi, di sicuro è una grande fonte di disagio. E allora via, tutti imbecilli. Anche io, anche io Papà, anche io!

Sincero, forse un po’ polemico a volte. Indubbiamente stanco del finto giornalismo e dei falsi moralismi che ogni giorno siamo costretti a subire più o meno passivamente, ma non azzardarti neanche a pensare di esprimere un’opinione che non sia politicamente corretta altrimenti passerai per essere Satana in persona. Che poi magari lo fossi, almeno avrei come lavoro quello di torturare la gente per l’eternità senza neanche la pausa sigaretta. Sono abbastanza convinto che all’inferno si possa fumare nonostante luogo chiuso.

Detto ciò non voglio offendere nessuno, anche se so già che sarà impossibile. Quando dico che non voglio offendere intendo che non voglio porre in essere nessun comportamento diretto ad essere appunto un’offesa. Se poi per una questione di mera insicurezza personale qualcuno dovesse sentirsi toccato nel profondo dell’anima vorrei che capisse che per quella esistono i preti, non i blog. Può andare a cercare conforto presso uno di loro. Così può essere toccato nel profondo anche da qualche altra parte. Magari gli piace.

L’obbiettivo di questo blog (si può dire anche obiettivo con una b sola, #sappilo) è, come avrai sicuramente già letto nell’immagine di copertina – se sei normodotato\a – scrivere di attualità, esprimere un’opinione che potrebbe essere un po’ distante dal coro del popolo medio, ma – chi può dirlo – potrebbe anche non esserlo, è meglio non escludere nulla. Attualità dunque, fatti più o meno recenti, più o meno importanti, singoli eventi o tematiche generali che toccano e magari travolgono il nostro contesto storico. Nulla di più, ma neanche nulla di meno. Vorrei evitare di cadere nelle vicende dei singoli esseri umani, quindi parliamo di morti, visto che l’unico motivo per cui si arriva a parlare di una persona ormai è che questa ci schiatti (non assegnavano anche dei nobel fino a qualche anno fa?). Scanserei, il condizionale è d’obbligo, come la peste queste questioni perché non penso di essere pronto ad affrontare la fetta di giornalismo in cui il buonismo raggiunge il suo apice, senza parlare poi del popolo medio. E poi ho appena comprato il pc, anzi lo sto ancora pagando, quindi vorrei evitare di tirarlo giù dal quinto piano in piena circonvallazione, magari in orario di punta, in preda ad un raptus causato da un commento di un qualsiasi “Buongiornissimo KAFFEEEE”. Ho già usato troppe volte la parola imbecille e non volevo cominciare a giocarmi i molti sinonimi che conosco. Mi serviranno più avanti.

Dolci in fondo: la speranza è quella di lasciarvi qualcosa. Una malattia venerea, una qualche forma di peste o perché no la voglia di approfondire un argomento o quella di dire la vostra, sinceramente. Potete anche insultarmi, non mi offendo. Vi consiglio però di evitare di offendere le forze dell’ordine in servizio, tendono a non gradirlo. Ma siete liberi! Questa società vi ha dotato di libertà d’espressione, quindi non sarò io a proibirvi di farlo. Fatemi solo sapere come va a finire. Quando uscite.

Scritto dopo: (bugia) chissà se ci sarà mai un secondo post. Chissà se qualcuno mi ha già querelato. Chissà se ho già offeso qualcuno.

Va bè, sticazzi. Il mondo è pieno d’incertezze.

K0