Questo leone deve morire

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Il leone, adorato e temuto, è da sempre associato a qualità d’animo come l’orgoglio, il coraggio, la nobiltà e la regalità, il potere e la forza. Il suo ruggito nel nostro immaginario è un moto di sincerità ed al tempo stesso un atto di potere senza pari: lo percepiamo nascere dal nostro intimo, dallo stomaco, lo sentiamo crescere d’intensità mentre da esso si allontana lungo le nostre vene ed arterie, come fosse una valanga è ad ogni centimetro, ad ogni attimo, più potente e carico, ci accorgiamo di quell’istante in cui ci si ferma in gola, appena sotto le mandibole, quasi voglia assaporare quel suo flusso in piena, quasi stia raccogliendo ogni goccia delle sue forze per distruggere la sua diga e riversarsi sul mondo intero colmandolo, quasi come se una volta uscito dalla nostra bocca ogni cosa davanti ad esso ne verrà sommersa e al proprio riemergere non possa essere mai più la stessa. Dentro noi non esiste nulla più forte del ruggito di un leone.

Da tempo immemore tra gli animali associati al divino, costituì per gli antichi egizi una delle divinità più popolari: Sekhmeth, la dea dalla testa di leonessa. La tradizione vuole che questa fosse stata scelta dal dio Rah, disgustato dagli esseri umani, per porre fine alla loro esistenza. La dea, una volta assunte le fattezze di una leonessa, cominciò la sua opera di sterminio in una maniera così spietata che gli altri dei si mossero a pietà verso il genere umano e implorarono Rah di placare la sua messa. Questi cosparse i campi di birra e succo di melograno, rendendoli così di un rosso simile al sangue di cui la dea si nutriva nello svolgere il suo compito divino. La dea, ubriaca, crollò in un sonno profondo, al risveglio la sua collera si era ormai spenta ed il genere umano fu così salvo.

Adorato e temuto, il leone gode, come molte altre specie, di un altro dualismo: il maschile e il femminile. Il maschio alfa domina il suo branco, ha la possibilità di riprodursi e difende il suo territorio, la femmina invece si occupa del sostentamento del gruppo, della caccia e del badare ai cuccioli. Il maschio per lo più immobile, forza in potenza, la femmina cacciatrice, attiva, forza in atto.

Un’immagine meravigliosa del leone viene offerta nel film “Poolhall Junkies”:

Youtube – Poolhall Junkies

“C’è questo leone. È il re della giungla. Un’enorme criniera. Sta disteso sotto un albero, nel mezzo dell’Africa. È così grande e fa così caldo. Non vuole muoversi. Arrivano i cuccioli e iniziano a dargli fastidio. Gli mordono la coda, le orecchie. Lui non fa nulla. La leonessa inizia a dargli fastidio. Arriva, lo provoca. Ancora niente. Gli altri animali lo notano e iniziano a farsi avanti. Gli sciacalli, le iene. Gli ruggiscono, lo deridono. Gli mordono le zampe e mangiano il suo cibo. Mentre lo fanno si avvicinano, sempre più sfacciati. Finché un giorno quel leone si alza e fa un macello. Corre come il vento, mangia tutto ciò che è sulla sua strada. Perché ogni tanto il leone deve mostrare agli sciacalli, chi è, realmente “.

C’è un ciucciolo di leone dentro ognuno di noi il giorno in cui nasciamo. Questo, insieme a noi, muove i suoi primi passi, gironzola a gattoni curioso alla scoperta del mondo che gli sta attorno, gioca con gli altri cuccioli: le prime lotte, le prime cacce. Prova a ruggire, anche se quello stridulo rumorino che esce dalla sua bocca ha ancora molta strada davanti prima di diventare un ruggito da leone, da adulto. Cresciamo e con noi il leone entra nella pubertà, cambia il pelo, un accenno di barba, di criniera. Cambiano gli odori e con essi gli umori. Il cucciolo inizia a ribellarsi all’alfa. Il nuovo, al vecchio. Nonostante gli affetti rimangano, nel bene o nel male, ci separiamo dal branco. Bisogna farlo per noi stessi e per gli altri. È così che vanno le cose, ci ripetiamo. Diveniamo adulti finalmente. Le lotte non sono più giochi tra fratelli, ma veri scontri per la sopravvivenza, dell’infanzia mantengono solo il loro essere un appuntamento quotidiano. Quegli stessi fratelli sono ora i nostri più temuti nemici. Il primo ruggito non lo si scorda mai. Lo abbiamo sentito esplodere appena sopra il nostro stomaco e farsi così grande dentro di noi da non poter essere contenuto. I primi fallimenti, le prime ferite. Il mondo non è più lo stesso perché noi, la nostra pelle, i nostri occhi, non sono siamo più gli stessi. Non potrebbe essere diversamente. Passa il tempo e con esso i nostri anni, il nostro leone è sempre più pigro, le cicatrici sempre più spesse. Lo abbiamo messo a tacere, non gli abbiamo più dato retta, lo abbiamo riempito di palliativi, quasi fosse una malattia. Lo abbiamo costretto sotto quell’albero dell’Africa. Ci siamo rassegnati, ci siamo adattati. Non siamo neanche più certi di averne ancora bisogno. Non siamo neanche più sicuri che il giorno che invece ne avremo riuscirà a svegliarsi dal suo torpore e tornerà a lottare al nostro fianco. Ci capita davanti allo specchio di sorridere al ricordo del nostro giovane Io. Ma poi guardandoci nei nostri stessi occhi, là dove prima nascevano i ruggiti, ora nasce quel triste dubbio che ci fa chiedere: questo leone deve morire?

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K0

La liberazione del fallimento: avere trent’anni

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Che belli i 20 anni. Il corpo giovane, il cibo spazzatura, gli amori, le serate con gli amici, l’alcol a fiumi, qualche droga leggera, le notti in bianco, le energie illimitate, la vita spensierata. La vita spensierata. La mela di Biancaneve. Sì, perché è lì che tutto inizia, ma noi presi dal fiume dei nostri eccessi a malapena ricordiamo il nostro indirizzo di casa, figuriamoci se riusciamo a renderci conto di cosa sta succedendo davvero. Come Biancaneve prendiamo la mela che ci viene offerta. Dai, come si fa a non afferrarla: guarda come spicca il suo rosso, guarda come rifrange la luce con la sua superficie perfettamente liscia, guarda quanto cavolo odora di libertà. Siamo grandi adesso, votiamo, il liceo è finito, nessun genitore ci costringe ad un rientro entro la mezzanotte, possiamo andare in giro da soli a fare quel che ci pare e godere del nostro essere ufficialmente adulti. Quanto è saporita questa mela. A differenza del suo veleno che non solo è insapore, ma è anche ad effetto lento. È a 20 anni che cominciamo a tendere l’elastico: l’indice di una mano da una parte, il pollice e l’indice della seconda mano dall’altra. Elastico che ci porterà fino allo scoccare dei trenta.

I Trenta.

Che botta. Solo a dirlo sembra un’enormità. Un essere misterioso che ad un certo punto comincia a proiettare la sua ombra su di noi, sul gioire dei nostri vent’anni, rovinandoci pian piano le giornate. Lasciandoci sempre meno ore di luce. Un po’ come le giornate di fine settembre.

Trent’anni. Qualcosa che non rifarei.

Nonostante possa dirmi più che “Fortunato” nell’ottica di cui stiamo per parlare, anche il mio secondo lustro dei vent’anni ha avuto le sue ombre e anch’io, come molti, l’ho visto inesorabilmente soccombere nel maggio di qualche anno fa.

A 29 anni avevo già un tempo indeterminato full-time con un ruolo di circa responsabilità in una società solida. Il che può sembrare un miracolo nel nostro contesto economico. Ma anche le mele più belle spesso vengono divorate al loro interno da piccoli parassiti. Se all’apparenza poteva sembrare tutto perfetto, osservato, anzi vissuto, da vicino saltavano all’occhio tutte le difficoltà dell’essere novizio in un ruolo da responsabile, nel dover gestire risorse umane ed economiche, spesso senza un supporto da chi già ricopriva il mio stesso ruolo. Insomma, venivo additato come un cazzaro, a volerla dire tutta. Per non parlare della mia vita privata: qualche anno prima ero tornato a casa dei miei genitori dopo una convivenza finita male e dopo qualche tempo ero finito per essere il terzo incomodo in una relazione tra due persone che ancora oggi non mi capacito di come facessero a stare insieme. Per fortuna avevo la mia famiglia su cui potevo contare. Quando non mi prendeva per fallito ed irresponsabile in quanto incapace di capire le mie scelte. Ah sì! Mi ero anche appena laureato e la vita aveva già cominciato a darmi qualche indizio per il futuro a breve termine: mio padre che morirà da lì a qualche anno non aveva potuto assistere alla mia discussione della tesi in quanto impegnato in una seduta di radioterapia. Avrebbe sconfitto il primo dei due tumori, ma non avrà la meglio invece, sul secondo.

In tutto questo cominciavo a tendere il mio elastico, sulle punte delle dita, ogni giorno di più. Qualche amico di Facebook si sposava, qualcuno cominciava a figliare, qualcuno, Dio solo sa come, cominciava a postare foto di posti bellissimi, perennemente soleggiati, tutto l’anno. Uno è diventato persino un giocatore di beach volley professionista. Un giocatore di beach volley, vi rendete conto? Va bè.

“Ma tu quando ti sposi?”, “Quando fai un figlio?”, “Ma tutti quegli anelli?”, “E quei tatuaggi?”, “Pensi di mettere la testa a posto?!”, “Hai quasi TRENT’ANNI”.

Trent’anni. Sembrava quasi un’estrema unzione.

E io? Io ascoltavo il monologo iniziale di Trainspotting. Ve lo ricordate? Questo qui:

Ma l’elastico se ne fotteva di quante volte lo ascoltassi ogni giorno. La sua tensione cominciava a farsi sentire comunque. Mentre la fatidica data si avvicinava io cominciavo ad attraversare le mie fasi:

Fase 1. La bacchetta magica. Lo confesso: a volte mi capitava di avere questo pensiero senza senso per cui, magicamente, allo scoccare dei miei trent’anni mi sarei ritrovato sposato con la donna della mia vita, ovviamente già da me ingravidata, in una nostra casa, entrambi con il lavoro della nostra vita. E un cane. Molto Mulino Bianco insomma.

Fase 2. C’è da mettersi sotto. “Le cose non si fanno da sole! Dai Kappa! Daje!” Hai ragione, devo mettere la testa a posto. Trovare una compagna, impegnarmi nel mio lavoro e dare una regolata alla mia vita. Sì, anche mettermi a dieta.

Fase 3. Merda è troppo tardi. Oh cazzo, ma come è successo che ho già 29 anni e 364 giorni? E adesso come cazzo faccio? È difficile anche per me fare tutto in una sera. Avrei dovuto svegliarmi prima, sono un fallito. Avevano ragione.

Poi però succede il miracolo: allo scoccare dei 30 anni nessun messo comunale viene a bussarti alla porta in piena notte per marchiarti a fuoco la parola “FALLITO” in fronte così che tutti possano vederla. Sarà in ritardo? Avrà trovato traffico? Eppure fuori la strada è vuota. Sarà in malattia? È possibile che il comune non abbia un sostituto? Ma che disservizio è questo? Sconcertato e un po’ indignato te ne vai quindi a dormire. Il risveglio dei trenta e un giorno è strano: ti accarezzi la fronte, non si sa mai che il messo sia passato mentre dormivi, ti guardi allo specchio e i capelli bianchi sono li stessi di ieri, idem le rughe e forse hai perso anche qualche grammo per l’agitazione. Timoroso esci di casa e nessuno ti addita come un untore, diffidente percorri il tragitto fino al lavoro e lì non senti l’odore di bruciato che ti aspettavi: nessuno dei tuoi colleghi ha preparato il rogo su cui bruciarti vivo, anzi qualcuno ti fa anche gli auguri. Incredulo arrivi a fine giornata. I giorni successivi vanno ancora meglio. L’elastico che avevi teso per dieci anni è partito. In pieno hai mancato il bersaglio, ma almeno non te lo sei dato in faccia. Tutta l’ansia che avevi accumulato è lì a dirti: “E sticazzi, pace”.

Non c’è altra soluzione. Devo farlo. Devo chiedere un colloquio urgente alla mia coscienza.

L’allarme risuona assordante, la luce rossa intermittente penetra l’oscurità fino a raggiungere la caverna in cui è solita rinchiudersi. “Due coglioni, chissà che cazzo vuole adesso”. Si alza, si pulisce addosso le mani sporche di cioccolata e pizza. “Che vuoi”. Senza neanche il tono interrogativo. Bè, ma scusa, ho trent’anni, sono un fallito, come mai nessuno mi sta perseguitando con fiaccole e forconi? “Fallito de che?! Ma vedi di non rompere i coglioni e torna a giocare ai videogiochi va”. Basito, rimani immobile. Ti guarda, con un cenno ti fa segno di andartene. Incredulo ti giri e cominci a camminare. “Ah, Coso, aspetta n’attimo. È finita la cioccolata. Tocca andare a ricomprarla. O trovare qualcuno che lo faccia per noi. Mo’ vai, levati dal cazzo”.

Con un sorriso ti allontani. Non è successo niente. Ti sei solo fatto le seghe mentali. Per dieci anni.

K0

Il dilemma della pecora intelligente

Immagine di @Bianca_e_i_suoi_colori

È rosso. Quella stramaledetta luce ci inchioda al marciapiede. D’un tratto il cervello, accortosi dell’assenza di movimento, riemerge dai pensieri nel quale si era placidamente immerso cullato dall’andatura regolare dell’abitudinario percorso verso l’ufficio. Scocciato: “Bè che succede? Perché non ci stiamo muovendo?”. ‘È rosso’. Una rapida occhiata a sinistra, una a destra (non si sa mai). “Ma non c’è nessuno! Andiamo!”. ‘È rosso’. “Per carità saranno sì e no tre metri!”. ‘È rosso’. Altri si affiancano, anch’essi paralizzati dalla calda luce. Uno scambio di sguardi, quasi a chiedere il da farsi, ma nulla. Tutto tace in un condiviso e consensuale immobilismo. Lunghi attimi. All’improvviso un folle, ma coraggioso individuo si fa avanti tra la folla e dopo qualche istante di esitazione, spinto da chissà quale nobile proposito o missione, attraversa. L’ammirazione per colui che ha infranto le regole sociali (e stradali) che ci soggiogavano ci pervade e prende il sopravvento: tutti decidiamo di seguirlo in questa sua crociata verso la libertà. Impavidi percorriamo la distanza maledetta da quella luce infernale. Con un brivido che ci corre lungo la schiena raggiungiamo l’altra sponda. In quel preciso istante scatta il verde. Ovviamente.

Ero in aeroporto con la mia compagna, stavamo mestamente aspettando l’arrivo del nostro aereo per poter rientrare a Milano dalle ferie. Lei, più giovane e tecnologica, brandendo il suo preziosissimo smartphone mi avvisa che l’applicazione della compagnia segnala un ritardo di quasi un’ora. Mi scorgo verso il monitor sopra il nostro gate, ma nulla. Malfidente cerco di capire dal mio telefono quale magia abbia compiuto per prevedere il ritardo, ma evidentemente non sono più poi così tanto giovane, né al passo coi tempi. Le chiedo di farmi vedere il suo schermo magico, giusto per essere sicuro che, non so, magari abbiamo dimenticato come si legge o l’ordine dei numeri, non si sa mai. E’ sempre meglio controllare con i propri occhi, mi dico. Effettivamente quanto da lei millantato coincideva al vero, nessuna svista. Mi ero preventivamente detto che la tecnologia non sbaglia e che quindi avrei dovuto credere a qualunque cosa avessi letto. Finiamo di prendere il nostro caffè seduti al tavolino del bar adiacente all’ingresso dell’imbarco, ma visto il previsto ritardo, non ci alziamo. A quanto pare però gli altri passeggeri, o almeno la gran parte di loro, non erano assidui utilizzatori di app di compagnie aeree, né accompagnati da una giovine maga esperta in tecnologia, decidono di mettersi in coda. È a questo punto che vengo assalito dal dilemma della pecora intelligente. Ve lo illustro: le pecore sono rinomate per il loro muoversi in gregge, non sono gli unici animali a muoversi in gruppo, ma non si sa bene per quale motivo, se si pensa ad un animale i cui esemplari tendono a muoversi in massa si pensa subito ad un gregge di pecore. Viceversa se si pensa ad un animale intelligente di sicuro non si va a pescare come prima scelta l’ovino. Per questo motivo una pecora intelligente dovrebbe spiccare tra le altre, differenziandosi per quanto possibile. Il mio informatore di fiducia mi aveva comunicato di aver visto nella sua sfera di cristallo piena di microchip che il mio aeromobile sarebbe giunto molto in ritardo. Il mio cervello aveva elaborato l’informazione con su semplice “Va bè sticazzi, stiamocene seduti a mangiare mentre io mi faccio i fatti miei”. Eppure, nonostante tutto conducesse alla logica scelta di non bruciare mezza caloria in più del necessario per stare anche solo un secondo più del dovuto in piedi, lui era lì. Piano piano si faceva largo in me, sempre più forte, sempre più invadente, ormai aveva raggiunto persino le gambe che quasi fremevano dalla voglia di lavorare (per la prima volta nella loro vita). Lui era lì e gridava ‘Andiamo! Andiamo! Andiamo! Vanno tutti! Andiamo!’. L’istinto del gregge. L’implacabile ed instancabile istinto del gregge. Cominciò quindi una lotta epica tra il mio cervello, forte dell’alleanza con la mia pigrizia, che mi voleva saldamente spalmato sulla sedia del bar, e quella vocina dentro di me che ora gridava a più non posso. Ad ogni persona che si aggiungeva alla coda il mio cervello subiva un duro colpo, mentre il mio istinto rinasceva pieno di rinnovata energia. Inutile dire che la lotta fu breve. Presto cedetti e mi misi in coda trascinando con me la mia veggente tecnologica e il suo dissenso.

Una volta in coda la razionalità tornò a recuperare energie. Ad ogni minuto speso in coda corrispondeva un “Te lo avevo detto” da parte del mio cervello. Ma fu tutto vano. Il mio istinto aveva raggiunto la pace dei sensi e nulla riusciva più a tangerlo. Rimanemmo in coda e aspettammo. Non potendo brucare, ci limitavamo a belare.

Gli esseri umani sono così. Possiamo farci poco, quando siamo circondati da nostri simili tendiamo ad avvicinarci più agli ovini che alle scimmie. Perché lo so che tu ora sei lì a credermi un deficiente, ma fermati un attimo e dimmi: non ti è mai capitato di trovare un casello vuoto e uno con delle macchine in coda e quindi di accodarti in quello pieno anziché in quello vuoto non si sa bene per quale motivo? Non ti è mai capitato, mentre guidi distrattamente di ritrovarti dietro ad una macchina parcheggiata in seconda fila in attesa che svoltasse? O in una fitta nebbia di seguire le luci della macchina di fronte a te pur non sapendo se la tua e la sua meta coincidessero? O semplicemente di fare una scelta piuttosto che un’altra solo perché “Così fan tutti”?

Se così fosse prendi pure posto qui vicino a me. In caso contrario candidati come pastore.

Bèèèèè.

P.S. l’immagine in testa è stata realizzata appositamente per questo post da Bianca che ringrazio. Appena avete qualche minuto tra una brucata e una belata prendete la vostra sfera di pixels da mille euro e visitate il suo profilo:

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