
In albedo di vita mia
l’orbe stolto scelsi,
il bagliore scemo seguii.
Per dolori e rovi mi condusse
sino a ripa di burrone.
Quivi con li occhi all’aere rivolti
serpeggiai danzante su ‘l confine,
pascendo me stesso d’illusione,
m’estasiai d’apparenza
degli incuranti traumi disaccorto.
Ma lo buon astro
che d’esistenza mia si cura
inciampar mi fe’
e lo capo il suol baciar.
Tosto che li occhi apersi
scorsi un orbe argenteo
funger da specchio ad altro lume.
Seppi allor quanto errato avessi,
dei dolor m’accorsi,
ma ad essi un maggior ne aggiunsi.
Rivelatomi che la risorsa mia gettai,
sconforto e forza tornaron,
al cammin della nuca mi rivolsi
e seppur la via i’ conoscea,
non mancai d’inceppar e di ferir.
Ahi quanto dolor in veritate giace.
Non di giocosi sorrisi
o di zuccherine labbra mi nutrii,
ma di smascherate menzogne
e lor ferite scoverte.
Il sangue vecchio pulii,
la pelle mia lo vero sol baciò novamente,
assassino mi feci
dei subdoli ospiti
che la mente mia pienavano,
alla luce costrinsi l’orbe mio
come malato che d’amara medicina si pasce.
Di rifiorir mi sia dato
che dell’errare mio m’accorsi,
per quant’amara linfa divenisse
mai più permutarla io vorrò.
Possa l’orbe destro
vegliar in mia rubedo.